Quando il primo ottobre si andava a scuola

Finalmente – finalmente? non so, per me stata sempre è una gran malinconia andare a scuola, una malinconia che mi prendeva non appena imboccavamo la via per raggiungere l’edificio scolastico e diventava sempre più chiara quando, in classe, si chiudevano la porta e le finestre e dalla cattedra cominciava la quotidiana lezione. Venne così il primo ottobre dell’anno scolastico 1931-32 e, con il grembiule nero, il colletto bianco e un fiocco rosso al collo, feci il mio ingresso nella scuola Giuseppe Mazzini, via Suppa, accanto all’edificio della Società Generale Pugliese di Elettricità- l’Enel di quei tempi- e il bel palazzo- foresteria delle Ferrovie dello Stato. A tracolla una vecchia cartella di cuoio, lucida, già usata dai miei fratelli. Era pesante, anche se il contenuto non era gran che. Il giorno prima, con mia sorella, eravamo andati dal negozio della vedova Trizio, la cartolibreria di via De Rossi angolo via Calefati, profumata di carte, d’inchiostro, di cartoni. La vedova Trizio, grassa, piccola, sempre vestita di nero, un po’ borbottona e attenta, con quei suoi occhi miopi, a controllare –una per una- le monete che versavamo per gli acquisti, consigliò lei stessa cosa comprare per il primo giorno di scuola della prima elementare: due quaderni, uno a quadretti, l’altro a righe, due pennini, un’asticciola, e basta. Bastava. Per regalo, e per augurio allo studente immalinconito, una bella carta assorbente, rosa, anzi due carte assorbenti, la seconda di colore scuro. Mia nonna volle aggiungere in quella pesante cartella il nettapenne, una serie di piccole stoffe cucite una sull’altra e fermate- al centro- da un grosso bottone. Prima di rimettere l’asta con il pennino ancora bagnato d’inchiostro nella cartella, dovevo pulire ben bene l’attrezzo. Per non sporcare le dita e non macchiare la vecchia cartella. Avveniva invece che, nei primi giorni, affondavamo le dita nel calamaio per dimostrare che già scrivevamo e anche per sentire quel buon odore d’inchiostro che ci faceva tanto studenti. Il primo giorno mia madre mi accompagnò per la lunga strada- tale a me sembrava – che portava in via Suppa. Vedevo il ” basso” della signora maestra, quella “ privata”, già con i bambini che lei intratteneva fino a mezzogiorno quando, al colpo di cannone sparato dagli spalti del Castello per annunciare l’ora ai cittadini, c’imponeva di cantare una canzoncina di cui ricordo solo alcuni versi che suonavano così: “… menzadì senanne/ l’angiue cantanne”, dove il mezzodì e gli angeli si univano in un melodico canto forse perché era anche l’ora nella quale tiravamo fuori dei cestini pane e ciliegie, pane e fichi, pane e un pomodoro, a me papà aggiungeva un grosso cioccolato.Ed era anche il tempo in cui finalmente potevamo bere, uno alla volta, all’unica brocca della signora maestra. “Ehi- avvertiva severa- un sorso solo. Non fate gli ingordi!”.
Ora era finito quel tempo, andavo con mia madre alla scuola pubblica, addio, vecchia maestra a tanto al mese, e il panchettino da portare da casa. Passavamo accanto al negozio del falegname-“ u meste d’asce”, il gran maestro dell’ascia- il quale era già al lavoro, un occhio alla strada dalla quale passavo; ed aveva già accanto lunghe mazze che solitamente ci regalava per farne fucili e spade e innocui armi di gran duelli cavallereschi. No, meste Coline, devo andare a scuola, non posso adesso chiederti le mazze, non posso tornare a fare il solitario re del lungo isolato. Quando arrivavamo all’altezza della chiesa dei Cappuccini, pardon Santa Croce, entravamo e mammà mi esortava a dire una giaculatoria alla Madonna così ti aiuta a studiare bene e a fare il bravo ragazzo. Poi il grande edificio di via Suppa. Tutti nel portone. Pieno, strapieno di mamme e figli, padri, nonni e vecchi zii. La folla era fermata da una gran vetrata accanto alla quale giganteggiava, in uniforme scura, il berretto con la visiera lucida ben calcato in testa, il gran maggiordomo di quel solenne ingresso: il basso e vecchio bidello. Con una mano teneva la porta socchiusa, pronto a correre alla vicina campanella che avrebbe suonato con tutto il suo vigore per aprire la vetrata e far entrare la marea dei familiari e degli studenti nel primo giorno di scuola. I ragazzi, tutti in grembiule nero, i colletti variamente ricamati e ritagliati, cartelle vecchie e nuove, erano un po’ incuriositi, un po’ annoiati, non sapevano cosa l’aspettasse dietro la vetrata . In quel gran bailamme entrò quello che sarebbe stato un mio amico per gli anni della scuola: Mangialardo, figlio di un contadino che aveva il suo orto al rione Picone. Era strabico, sulla testa tutta rasata esibiva una lunga cicatrice di vecchia data – una pietra di punta?-, non aveva colletto e fiocco rosso. Il grembiule gli stava stretto, nel suo bel mezzo dominava una bella pezza colorata. Sì, proprio dove solitamente erano cuciti i lunghi nastrini rossi che indicavano la classe da frequentare: per la prima elementare la striscia era solo una, due per la seconda, tre per la terza. La quarta e la quinta erano mostrate invece con i numeri romani, IV e V, anch’essi in rosso. Mangialardo non aveva la cartella. Fece il suo ingresso con una lunga fune alla quale era legata una vecchia padella. Sulla padella c’erano due quaderni, l’asta con il pennino naturalmente spuntato. Il bidello suonò la campana, la folla si precipitò alla vetrata: era il primo giorno di scuola dell’anno scolastico 1931-32, nono dell’era fascista.

Giovanni Pascoli a scuola in un ottobre lontano

Nel 1882 venne in Basilicata, passando naturalmente per Bari, il poeta Giovanni Pascoli. Non era ancora il grande vate della nuova Italia, ma solo un giovane docente alla ricerca di un posto fisso. Il posto fisso l’ottenne a Matera in qualità di reggente di lettere greche e latine nel locale Liceo. La Basilicata era lontana, lontanissima; ma il Pascoli, che aveva bisogno di uno stipendio anche per mantenere le sorelle , se ne scese nel Sud con una grande malinconia e con un cuore da pellegrino. Gli calzava bene la poesia appena scritta: “ Narran le pie leggende/ che ogni uomo è un pellegrino…/Al pellegrin vogliate,/ angioli, un po’ di ben…” Giosuè Carducci, il grande poeta e suo maestro, non gradì che il suo allievo venisse, sono sue parole “…nella merdosa Matera”. Giovanni Pascoli lasciò le sue sorelle, prese il treno in partenza da Bologna- erano i primi di ottobre 1882- e giunse a Bari per poi proseguire per Matera. Arrivò a Bari di primo mattino e scrisse a un suo amico dicendo di aver visto, o immaginato di aver visto dal treno, “ …la valle di Mattinata dominata dal monte Matino, o Saraceno, dove si precipitò Ettore Fieramosca”.
Pascoli dunque conosceva la leggenda popolare pugliese sul popolare eroe della Disfida di Barletta che, disperato per la morte della sua bella Ginevra, raggiunse il Gargano e ,da una rupe altissima di Mattinata, si precipitò nel bel mare che lo accolse fra le sue onde spumeggianti..

Anni dopo così descrisse il suo arrivo nel capoluogo pugliese: ” Bari…quanti anni sono! Ero biondo allora, e magro, e andavo a Matera, così a me cara, sebbene aspra e povera. E Bari mi sorrideva col suo mare azzurro prima che salissi e mi perdessi nei monti brulli. E mi faceva coraggio e mi diceva: Va, ascendi, su,su,su…”
Da Bari, il poeta prese una diligenza diretta a Matera.

La prima tappa del viaggio fu Grumo Appula che il poeta vide come un “ villaggio fangoso”. C’è da supporre che , in questa prima tappa, oltre 20 chilometri, ci fu il primo cambio dei cavalli. Giovanni Pascoli annotò che il suo viaggio verso Matera si svolse con “ il molto traballar di vettura, attraverso luoghi sinistramente belli”, intravisti di notte “ per vie selvagge”. E anche molti anni dopo così ricordava quel viaggio: “ Io ascesi una notte tra foreste paurose al lume della luna, cullato dalla carrozza, dalle dolci e monotone canzoni del postiglione. E’ una visione poetica che m’è sempre nell’anima, negli orecchi. Vorrei poterla fissare in versi. “.

Poi visse lunghi mesi a Matera e come passarono quei giorni basilischi lo apprendiamo dalle sue lettere. Ecco così che da una delle sue prime lettere apprendiamo :”…in generale sto bene a Matera. Son già cominciate le scuole. Il tran tran procede allegramente. Sol d’una cosa mi lagno: qui è troppo caro il vivere e l’alloggio, e tira quasi sempre scirocco, dimodoché io non posso fare economia , e non posso procurarmi con lavori straordinari qualche lavoro straordinario, perché quando tira scirocco il cervello dorme della grossa”.
Povero Zvanì Pascoli, destinato a divenire uno dei grandi esponenti della nostra letteratura: a Matera spira lo scirocco, e lui non ha la forza di dare qualche lezione privata o anche d’inviare qualche composizione lirica a giornali e ad editori. Almeno così par d’intendere il lavoro straordinario cui allude. A questo disagio è da aggiungere che nei primi tempi del suo arrivo in Basilicata non gli fu subito pagato lo stipendio . Ha tempo e voglia di scherzare però, sempre per via di epistole, con le sue lontane sorelle. In una lettera si legge che avverte di sentire un topo che rosica- ah, la sua casa posta in un umido sottoscala- non sa che cosa. Chiede allora che, per pacco postale, le care sorelline gli inviino un gatto.

Sì, i poeti non si privano, anche quando litterae non dant panem, del loro sognante umorismo. E’ interessante notare come, nelle sue missive, il Pascoli parli delle tempeste e del freddo e , in generale, del clima della zona. Dice ancora che “ qui tira scirocco, vento uggioso, molliccio e appiccicaticcio, ma caldo. Neve non s’è vista. Nebbia e pioggia, sì. Poca pioggia e molto nebbiume” ; e intanto, ragioni climatiche a parte, è attento alle produzioni locali per vedere se ci sia qualcosa da mandare ai suoi nella Romagna lontana. Scopre così che da quelle parti non ci sono arance, o cose del genere, per inviarle ai parenti lontani. Viene a conoscenza però che, nelle masserie materane, è prodotto un buon formaggio “giallo, tondo e grosso”: il provolone. A lui, quel formaggio, non piace; gli viene voglia però di farlo gustare a una buona zia lontana. L’occasione d’inviare un pacco con quel prodotto caseario, gli consentirà anche d’inviare dei regalini alle sue amate sorelle. Partì poi quel pacco con il giallo provolone da Matera verso la Romagna?

Incontro con Pier Paolo Pasolini

Nel 1964 non ero più residente a Matera. Ero tornato a Bari, nella mia città, ma nel capoluogo lucano avevo parenti ed amici e compari e i rapporti erano così affettuosi che continuavo a vivere sospeso fra le due località. Ogni occasione era buona per una
capatina fra i Sassi o giù, al nuovo villaggio della Martella, o su, verso la ridente collina di Timmari. Ero naturalmente attento ai fatti e agli avvenimenti e ai personaggi che popolavano la bella città lucana; e attentissimo quando all’orizzonte si profilavano eventi eccezionali. Figuratevi l’interesse- interesse culturale, si capisce- quando, nell’aprile di quell’anno, giunse a Matera Pier Paolo Pasolini con tutto il suo caravanserraglio per girare “ Il Vangelo secondo Matteo”. Ed era un caravanserraglio di gran nobiltà: c’era la madre, gentile e un po’ distaccata, forse intimidita perché il figlio le affidava la parte della Madonna. E c’era Enzo Siciliano, allora giovanissimo, e il poeta Alfonso Gatto, un po’ pesante nella sua andatura, lo sguardo stralunato e meravigliato nel trovarsi in un paesaggio diverso, il polemico Francesco Nicoletti, l’acuta Natalia Ginzuburg, il nipote della scrittrice Elsa Morante, il poeta Rodolfo Wilcock, il critico musicale napoletano Ferruccio Nuzzo, il famoso Tonino Delli Colli per le riprese cinematografiche. Un parterre di tutto rispetto ma che pure era guardato con un certo…sospetto da parte della cittadinanza maaterana. Erano, tutti questi illustri artisti, uomini di sinistra, comunisti addirittura; e allora i comunisti erano spesso scomunicati dalla Chiesa anche se al Comune e alla Provincia erano le sinistre a guidare le sorti del Materano. E poi, e poi quel Pasolini ateo che, in una cella monastica d’Assisi, s’era trovato al capezzale il Vangelo e l’aveva letto tutto di seguito, dopo vent’anni, come un romanzo. E nell’esaltazione della lettura gli era venuta l’idea di farne un film. Dio, diceva un prete che conoscevo e che pure era un sacerdote di grand’apertura culturale, Dio benedetto in che mani è capitato il nostro buon Gesù.

La comitiva spesso si spostava a Bari, Pasolini aveva scritto già il suo “ Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare” e aveva conosciuto, e consultato a suo tempo per il saggio, don Tommaso e Vittore Fiore. Incontri a cena, allora, al “ Marcaurelio”. A tavola sedevo anch’io con tutti quegli intellettuali destinati a diventare, nel film, Apostoli pieni di fede accanto allo spagnolo Enrique Irazoqui che, secondo Pasolini, esprimeva la forza, la decisione, il volto di Gesù come l’avevano visto i pittori medievali dal nome di Masolino, Melozzi da Forlì, Giotto, Carpaccio, El Greco, i manieristi del 1600. Pasolini, per la cronaca, prima di Matera era andato in Israele e in Giordania per trovare i luoghi della Passione; ma in quelle terre tutto si era trasformato. Trovò la sua Gerusalemme a Matera e girò alcune scene anche a Castel del Monte, a Barile, nel Crotonese per proporre Betlemme; e a Tivoli per l’orto del Getsemani.

Al “ Marcaurelio”, durante la cena con Gesù, la Madonna, i Discepoli e Pier Paolo Pasolini, la cara Brunetta, l’indimenticabile moglie di Vittore Fiore, solitamente acuta e spesso pungente conversatrice, non disse parola. Alla fine, quando la cena fu consumata, e la comitiva risalì in macchina per tornare a Matera, Brunetta fissò il marito e gli disse tagliente: “ Troppo ti fissava il Pier Paolo, troppo”.
Quattro mesi durarono i mesi della lavorazione del film. Avevo notizie, commenti e curiosità dai miei amici, parenti e compari materani, alcuni dei quali erano apparsi – in varie parti- nel filmato. Furono chiamati anche il mio sarto, un brav’uomo, veniva a prendere le misure dei vestiti direttamente in casa e non pretendeva – come fanno i sarti di tutto il mondo- grosse cifre. Soltanto che non aveva la mano felice nel taglio. Una volta mi aveva fatto un cappotto così largo ma tanto largo che, da magro quale sono, sembravo Carnera in persona. Fu scritturato anche il robusto guardiano notturno della Banca d’Italia. Mi aspettava ogni giorno sul portone di casa perché assumessi, nell’azienda che dirigevo, il figlio.

Brava gente, in sostanza, anche se ero costretto a scansarli perché l’uno mi voleva confezionare sempre un cappotto o un vestito e l’altro voleva l’assunzione del figlio.
Quando vidi il film all’improvviso mi apparvero il sarto e il guardiano della banca d’Italia: erano i Re Magi Melchiorre e Baldassarre. E portavano i loro doni al Bambino nato nella mangiatoia con tanto amore, tanta dignità, che da quel momento non scorsi più in loro l’umile modestia ma la regale Maestà dei Magi evangelici.
Il film fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, e il regista fu accolto da fischi e da ingiurie. Alla fine della proiezione, tutto il pubblico, commosso, applaudiva. L’opera era dedicata alla “cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII “.

Un indimenticabile personaggio: l’ing. Giuseppe Cesareo

Per alcuni anni, complice Nino Lavermicocca, avevamo appuntamenti frequenti con l’ing.Giuseppe Cesareo , Direttore della Bari- Nord.
L’appuntamento era nei pressi della stazione, vicino al portoncino che porta alla sede della Bari Nord. Vi dirò: ho sempre amato le stazioni di tutto il mondo. Le ho amato e le amo anche adesso che sono tanto avanti negli anni…

Quand’eravamo ragazzi il nostro punto di riferimento era la Stazione centrale. Era il sognato punto di partenza per viaggi lontani. Quei viaggi che non potevamo fare ed allora sostavamo a lungo nelle sale d’aspetto fra i viaggiatori in attesa e quelli che sbarcavano dai treni che venivano da lontano.
Anche quando, per lunghi, anni facevo l’inviato speciale dei giornali, nei momenti in cui non avevo niente da fare andavo a vedere le stazioni. I miei nonni, ai tempi in cui viaggiavano, avevano un punto di riferimento nelle loro scorribande: i cimiteri monumentali. Io, le stazioni. Ho conosciuto così le stazioni di Londra, di Healing Broadway, quella di Praga con la grande scritta 1918 a ricordo della fondazione della Repubblica di Cecoslovacchia. Che dire poi della monumentale milanese che raccoglieva i sogni miei e quelli di tutta la mia famiglia, a Milano emigrata negli anni Trenta. Nel Granducato del Lussemburgo la stazione era a forma di chiesa e a Francoforte e a Berlino i treni viaggiavano sui ponti, sotto terra, poco mancassero che volassero in cielo…

Andare dall’ing. Cesareo era un momento di ricordo dei tempi passati, anche se con lui parlavamo di un libro da scrivere sulle Ferrovie Bari- Nord. L’ingegnere aveva un aspetto severo, il capo tutto rasato ma presto il suo sguardo s’addolciva quando Nino ed io gli parlavamo dei nostri ricordi sulla Bari- Barletta, sui vecchi capostazioni di quella che una volta era la “ciclatera” che correva sicura anche sulle strade nazionali. L’ingegnere ascoltava le nostre fantasie; ma, fra una telefonata e l’altra, fra la segretaria e un funzionario che irrompevano nella stanza a ricordargli questo o quell’impegno, parlava dei problemi ferroviari, dei suoi viaggi all’estero, dell’impostazione che voleva dare al libro. Ed era un ‘impostazione tutta fatti, iniziative concrete, responsabilità di un mondo di comunicazioni importantissimo nell’area meridionale ma anche in quella nazionale.

Diceva queste cose con la sua voce pacata, serena, con grande competenza sui fatti e sulle enunciazioni. Ricordo che quando parlammo della” civiltà della comunicazione” ebbe un’espressione intensa, a significare che tutto il lavoro ferroviario era da collocarsi in quel gran concetto di civiltà. Insomma, era bello andare in quell’ufficio della Bari-Nord, parlare vedere fotografie di vecchi convogli, sentire i fischi delle locomotive, accorgersi che da quel palazzo si dominava su tutti i fasci binari che s’irradiano per il nord e per il sud.. L’ultima volta che lo incontrai, sempre con Nino, fu lo scorso settembre.Era una giornata mite, sapeva di fresco autunno e non lasciava prevedere l’inverno che si avvicinava. L’ingegnere ad un certo punto si lasciò andare a parlare d’alberi, di piante, di fiori della sua casa sulle Murge, mi pare in quel di Monopoli. Disse all’improvviso che aveva notato delle piccole foglie che crescevano su quegli alberi, parlò con tenerezza della dolcezza di una natura che sentiva lo circondava ma della quale forse era la prima volta che ne parlava, almeno con noi che dovevamo scrivere quel libro sulle Ferrovia Bari- Nord. Poi non lo vidi più. All’improvviso era arrivato per lui il lungo viaggio per Itaca lontana. Un viaggio senza ritorno, salvo per coloro che hanno fede nel Cristo risorto. Quando prendo un treno alla Stazione centrale vedo sempre il portoncino dell’ufficio del nostro ingegnere, mio e di Nino. Mi pare che da un momento all’altro dobbiamo tornare ancora a parlare, di libri e di treni, di alberi in fiore…

Due grandi insegnanti: Candida e Ave Maria Stella

Venne, Candida Stella, insegnante di lettere nella nostra classe dell’Istituto Magistrale “ Bianchi Dottula”, nell’anno scolastico 1942-43. Era un periodo drammatico della nostra storia, di lì a poco gli Alleati sarebbero sbarcati in Sicilia: i razionamenti diventavano sempre più pesanti e, con la fame, dominava sovrano il timore dei bombardamenti aerei. Ma lei, la nostra insegnante di lettere, costituiva un autentico punto di riferimento.Le sue lezioni erano alte: letteratura ed esempi di vita ed un solido buon senso caratterizzavano le sue ore. Era gran maestra nella conversazione, un parlare a tutto tondo e fra l’altro privo d’accenti dialettali. Raccontava spesso di Torino dalla quale diceva di provenire. In realtà non riuscimmo mai a sapere qual era la terra d’origine, anche se qualcuno- molto tempo dopo- ci disse che il padre era stato bibliotecario del Convitto Cirillo. La mia generazione in realtà difficilmente ha avuto confidenze familiari e confessioni degli insegnanti, tanto era forte il dogma della “ privacy”. Un giorno c’invitò alla sua casa, in Corso della Vittoria. Un grande appartamento dell’Incis, pieno di quadri, con lei c’erano la vecchia madre, in uno scialle che partiva dalla testa come una bianca cuffia e poi l’avvolgeva in tutta la persona, e la sorella Ave Maria. Ave Maria Stella sarà poi anche lei docente di lettere e pubblicista di buona vena. Fu in realtà un incontro addio.

L’anno scolastico stava per finire, la maturità ci aspettava; e ci aspettava la guerra. Alcuni compagni avevano avuto già la cartolina precetto e lei, Candida Stella, attendeva il mese di giugno, per partire in villeggiatura, sulla riviera adriatica, a Pescara. Le scuole si chiusero e lei partì. Noi, i suoi allievi, le scrivevamo lunghe lettere, il dramma. bellico era sempre più vicino, tremendo. Poi. fu il settembre ’43, e cadde un lungo silenzio. E loro, le Stella, dov’erano andate a finire? Lì, sulla costa adriatica, c’erano stati bombardamenti, passaggi di truppe, distruzioni di città. La vedemmo tornare quasi due anni dopo, ricordo che portava calzini corti in contrasto con le donne dell’epoca che calzavano solo lunghe calze.La sua casa di corso della Vittoria era stata requisita dagli Alleati e lei, la sorella Ave Maria e la vecchia madre, avevano trovato ospitalità in una camera affittata in via Murat. Erano addolorate, affermarono che n’avevano passate tante. Ci vedevamo, qualche volta; ma mai dicevano di come avevano passato quei due anni di guerra. Quando nel ’45, Bologna fu liberata, la mia azienda m’inviò per una settimana in Emilia. Candida Stella lo seppe e mi pregò di andare a Castel San Pietro, presso una famiglia dove avevano lasciato libri e valigie. Andai a Castel San Pietro, nella famiglia di un calzolaio con bella ca¬setta su un fiume dov’erano state a lungo ospiti. Lì trovai valigie e libri. Lì seppi che le signorine Stella, con la madre, avevano seguito l’esercito tedesco. In qualità d’infermiere. Poi mi dissero, a pezzi e a bocconi, anche gli emiliani erano riservati, che Castel San Pietro era stata l’ultima tappa del loro viaggio al seguito delle truppe tedesche. Avevano curato malati e feriti, forse Ave Maria s’era innamorata di un pastore luterano. Molte volte erano state interpreti presso i tribunali tedeschi che giudicavano i “ribelli” italiani. Erano due donne piene d’umanità. Quando i Tedeschi piombavano nella casa del calzolaio di San Pietro per sequestrare cavalli e mucche e pecore che la famiglia possedeva, loro parlavano con i tedeschi, padrone com’erano della lingua, chiedevano delle loro famiglie, delle loro donne; e i tedeschi non facevano più razzia. Ma le Stella non raccontarono mai di quella loro esperienza. Quando tornarono nella loro casa in Corso della Vittoria, nel salone, in bella mostra, c’era la foto di una tomba tedesca ritagliata da un settimanale illustrato di Monaco di Baviera. Un ex compagno scuola, ci disse che quella era la tomba di un pastore luterano che avevano conosciuto durante la guerra. Una volta, durante una lezione su Dante, Candida Stella ci aveva detto che il peccato d’amore è quello che grida meno vendetta al cospetto del tribunale di Dio. Verso la fine degli anni Cinquanta, Candida e Ave Maria Stella fondarono il circolo culturale “ Il Leggio” che svolse un importante ruolo nella cultura barese. Le due amabili sorelle si spensero negli ultimi anni del secolo scorso, prima Candida e poi, qualche anno dopo, Ave Maria.